La cosa più bella del partire è il momento pre-partenza; non so bene come descrivere l’emozione di quell’attesa, di quelle mattine in cui dal muro stacchi i post-it numerati finendo per staccare quello con " -1 ". Il mio amico quasi saggio mi disse una volta: "Ti capisco. Io stavo dietro a una donna per così tanto tempo, che quando alla fine ha ceduto, mi sono reso conto che l'attesa era molto più eccitante dell'atto sessuale in sé e che avrei preferito non averla ancora posseduta."
Ecco, per me l'attesa è il corteggiamento e il viaggio l'atto sessuale - sai che dopo il corteggiamento arriva la ricompensa, ma sai anche che dopo la ricompensa non puoi più tornare all'attesa.
Le giornate non finiscono più; mi sento peggio di una potenziale vedova che aspetta il ritorno del marito - soldato da così tanto, che non è più certa di riuscire a salvaguardare lo stesso entusiasmo quando finalmente sarà tornato.
Dopo la mia recente malattia infettiva che oltre al mio corpo ha scombussolato anche gli studiosi, i medici si erano divisi in due scuole di pensiero: coloro che mi dicono di seguire il mio cuore e partire, se ne sento bisogno, e coloro che scuotono la testa - i miei frequenti e selvaggi viaggi in Asia sono sospetti di essere uno dei motivi dell’infezione scoppiata nel mio corpo a ottobre, causandomi grave shock da setticemia, broncopolmonite bilaterale con la seguente perdita di polmoni, insufficienza renale acuta e altre sorprese inaspettate. I dottori sono stati chiari - le probabilità di sopravvivenza erano scarsissime, il virus mai isolato, i trattamenti totalmente inefficaci, la situazione disperata.
Mai avrei pensato che la parola ‘mycoplasma’ un giorno mi facesse più paura della parola Isis. Mai avrei pensato che un giorno avrei dovuto fare i conti con la frase “Non puoi più viaggiare.” Io, che ho attraversato i peggiori paesi senza nessun vaccino, stavo più di là che di qua durante il viaggio nella mia terra nativa. Bel paradosso.
In qualche modo, in qualche mese, ce l'ho fatta. Per miracolo, mi sono letteralmente rialzata in piedi, e pian piano re-imparato a camminare e respirare da sola. Mollato l'ospedale camminando e non su una barella, contro ogni aspettativa. Chiusa in casa, al riposo, evitando qualsiasi contatto con il mondo esterno, per tutelare il mio ancora debolissimo sistema immunitario dalle infezioni, starnuti, credi, virus, streptococchi. Smesso di fumare, cominciato a mangiare carne, condotta impeccabile, vitamine, tanta acqua. Funzione polmonare quasi ripresa, ma nuovi malesseri dovuti all'eccesso e al mix micidiale di medicine endovena apparsi subito dopo. Per mesi, vita da pendolare tra un medico e l’altro. Per mesi, pareri diversi. Artrite? Circolazione? Disfunzione delle ghiandole? Malattie autoimmuni? Tac. Lastre. Prelievi. Altre medicine. (Veramente un paradosso; medicine per curare un danno causato dalle medicine.)
Una mattina, mentre combatto per l'ennesima volta con le mie mani e i miei piedi che non riesco più a muovere e piegare, penso: “Basta... io parto. Preferisco morire malata nella mia Asia che sana a Milano.” Faccio il biglietto prima che il medico possa elencarmi tutti i motivi per cui non dovrei farlo. Che non mi si dica che un detox nella giungla, con mango fresco ogni mattina e coprifuoco alle 7 di sera non mi faccia bene. Prenderò l’unica medicina che mi fa bene - l’aereo. Non scelgo l’Indonesia a cui tocca; so che il mio corpo non è in grado di subire sforzi estremi ne che io sono in grado di trattenermi dal non farli. Per la 27-esima volta scelgo la Thailandia, un posto in cui so come muovermi e che ha sempre qualche cosa di nuovo da donarmi.
Parte il solito iter delle preparazioni che ogni volta eseguo con cura maniacale:
1.,scelta del biglietto - 48 ore per trovare il match più economico tra l’andata e il ritorno in modo da no perdere nemmeno un giorno dei 30 giorni a disposizione. Missione compiuta: 370euro, volo quasi diretto, Milano-Zurigo-Bangkok.
2.,scelta dell’assicurazione - questa volta è facile, Qatar Airways Privilege Club propone come partner un’assicurazione di viaggio che mi fa guadagnare anche le miglia.
3.,scelta del garage per la macchina - con servizio navetta per l’aeroporto incluso, MyParking ha un’infinità di soluzioni, spendo solo 50e/mese.
4.,scelta dell’inquilino - ecco perché a volte torno dai viaggi con più soldi, affitto casa mia temporaneamente a qualcuno, basta organizzarsi.
5.,scelta dello zaino - 30 litri più che sufficiente (Nikon, ottiche, cavalletto, tappi per le orecchie, medicine, sacco a pelo, libri)
Quando scendo a Bangkok, in una qualsiasi mattina afosa, bollente e piena di smog, quasi piango dalla felicità.
“Bentornata a casa”, mi dico e m’incammino verso il controllo passaporti. Mi fanno notare che sul modulo non ho inserito l’hotel in cui dormo. Stupidamente sincera, ammetto che non ne ho uno, ne sceglierò uno sul momento. Niente da fare - o ne cito uno o non entro nel territorio. ”Un nome”, dice la guardia guardandomi negli occhi come per dirmi “Svegliati, scrivi qualsiasi cosa e io faccio finta di crederci.” Scrivo allora il nome di un alberghetto dove alloggiavo anni fa con mia madre, tale Sleep Withinn (Evitate, se potete - camere spesso senza finestre, rumoroso, senza colazione e sopravvalutato.)
La guardia spalanca gli occhi, mi guarda sbalordita, poi diventa rossa, poi, scontenta, mi cosparge di frasi in thai. Uno dei ‘crimini’ comportamentali più gravi in Thailandia è fare ‘perdere la faccia a qualcuno’ alzando la voce, o imbarazzandolo, perciò continuo a sorridere. (Da noi è una presa in giro, qui invece tra i 22 modi di sorridere ufficiali, ci sono anche i sorrisi che vogliono dire ‘mi dispiace’ o ‘sono triste’.) Non so quale di loro sono riuscita a fare ma la poliziotta comincia a ridere ed è solo lì che capisco che non ha capito: avrà letto Sleep with him, ovvero “dormo con lui”, ecco perché si sarà imbarazzata. Nel dubbio, cerco di spiegarglielo ed effettivamente, è così. E non mi crede che un albergo possa chiamarsi in modo simile. Per fortuna l’onnipresente Google trova il benedetto albergo e mi scagiona, ma non finisce lì - ormai presa di mira, vengo sottoposta a un setaccio del passaporto e dei suoi timbri e passo la successiva mezz’ora a spiegare dove sono stata e perché. Non è facile convincerla che avere il passaporto pieno di timbri thailandesi non vuol dire lavorarci in nero. Purtroppo due volte ho anche sgarrato e sono rimasta oltre al limite dei giorni consentiti, pagando la multa all’ufficio immigrazione. Avevo letto che troppi eccessi del genere possono portare al divieto di accesso nel paese. Non ci avevo creduto più di tanto. Ora sì.
La poliziotta nota il mio ciondolo d’oro con il Re thailandese, scomparso da pochi mesi, di cui non mi separo mai durante qualsiasi viaggio - me l’ha regalato il mio sciamano 21 viaggi fa e da allora è la mia assicurazione, fortuna, decisione, retta via, angelo custode, consapevolezza. La guardia richiude il mio passaporto. “Pai“, dice, io ringrazio unendo le mani in un wai e corro prima che ci ripensi.
L’iter numero due, una specie di cabala rassicurante che dà il via al viaggio, è fermarsi al secondo piano dell’aeroporto Suvarnabhumi al Mr. Cup Coffee per una tazza di un liquido scuro, simile a un caffè, e subito dopo allo stand con la sim thailandese.
Di seguito al primo piano per raggiungere i mezzi di trasporto - nell’ottica di un viaggio low cost scelgo l’autobus, ma prima provo a mettermi nella fila dei taxi e trovare un altro farang (straniero) che possa condividere la corsa con me, in quanto Khao San Road, la strada dei backpackers, è sempre la più ambita. Stranamente, di turisti ne vedo ben pochi e nessuno di loro diretto verso Khao San; fatto mai avvenuto negli ultimi 10 anni.
La città è ancora piena di ornamenti bianchi e neri intorno alle fotografie del Re scomparso; nessuna ditta, compagnia, attività o ente ha dimenticato di manifestare l’immenso dispiacere, e il colore giallo che vestivano gli impiegati ogni martedì proprio per il Re, è diventato nero. Altrettanto, per ben un anno, tutti i siti internet sono in bianco e nero.
Con la nuova legge - tutti i locali chiusi rigorosamente a mezzanotte e pene per possesso/uso di droga più severe, il paese si è ripulito dalla massa che quotidianamente giungeva da ogni parte del mondo per i famosi full-moon party, shake di funghi magici e altri tipi di droga.
Per essere di parola, prendo una stanza nel famoso Sleep Withinn e mi ricordo subito perché m’ero promessa di non tornarci mai; purtroppo la sua vicinanza all’ufficio dei catamarani mi serve tantissimo, in quanto la sveglia mi suonerà alle 4.30 del mattino.
Meta ?
Non lo so.
Devo ritrovare quel brivido dello spaesamento, dell’inaspettato, dell’avventura, della caccia al posto giusto. Non so mai dove si trova e come arrivarci, ma quando lo scopro, sento una scossa e so che è lui. Quel posto che fa sì che io non veda l’ora di svegliarmi per accogliere l’alba, assistere al risveglio della vita, fauna e flora, del posto cui ogni istante in cui non gli si dedica l’attenzione, è perso per sempre.
Un posto che ha fretta di rallentarmi. Un posto che non ha bisogno dell’uomo per continuare ad esistere, che mi tiene inchiodata a sé non solo perché è sprovvisto di strade, ma perché so che necessito di rimanerci finché il mio corpo non ne avrà abbastanza, e non so se sarà dopo un giorno o un mese.
So solo che dopo un’ora di shuttle bus, 12 ore di volo, due ore a piedi, 8 di autobus, 2 di catamarano a un altro pezzo di barchetta, l’ho trovato, l’ho sentito, l’ho riconosciuto - Mango Bay.